Bruce Springsteen e “Letter to you”: finalmente, un album per e con la E Street Band

Volendo ridurre questa recensione ad un solo paragrafo, basterebbe annotare quanto segue. Bruce Springsteen, dopo molti anni, ha scritto e pubblicato un album per e con la E Street Band.
Dodici pezzi, poco più di 58 minuti di musica, tre quarti dei quali scritti in pochi giorni nell’aprile 2019, tutti incisi in quattro giorni nel novembre 2019 nel suo studio domestico in New Jersey, suonati direttamente dal vivo col gruppo senza avere prima prodotto dei demo.
Il Boss deve nove canzoni alla magia di un’anonima chitarra acustica regalata da un anonimo fan italiano fuori dal teatro di Broadawy dove pochi anni fa si esibiva ogni sera, e tre alla grandezza del suo inesauribile catalogo.
“Letter to you” non potrà essere promosso dal vivo a causa del covid (la sola E Street Band sul palco equivarrebbe ad un assembramento, dopo tutto) e, quindi, non potrà essere ascoltato nell’attesa della liturgia in arrivo allo stadio. Meglio, allora, predisporsi ad ascoltarlo come un album rock che potrebbe arrivare direttamente dagli anni ’70, suonato però dalla versione qualitativamente aumentata della band. Il meglio di due mondi in una confezione unica.

Quanto alla versione lunga della recensione…
Potrei partire dalla scelta interessante del Boss di fare emergere come trailer di “Letter to you” in rapida successione prima la title track e poi “Ghosts”. A posteriori, credo che la prima sia servita come confezione e dichiarazione d’intenti mentre la seconda volesse chiarire che le aspettative per un “vero” disco della E Street Band sono ampiamente giustificate.
“Letter to you”, la canzone, è una comunicazione strettamente riservata a una fandom di decine di milioni. Parafrasando e riassumendo, Bruce parla così: ‘qui dentro, ragazze e ragazzi, ho messo tutto me stesso: dubbi e paure, tempi bui e tempi buoni, tutto ciò che il mio cuore ritiene autentico, l’ho vergato “in ink and blood” e l’ho scritto in una lettera dedicata a voi”. Come dire: ora sapete tutto dei prossimi undici brani, oltre che di come mi sento oggi. (E cerchiamo di sorvolare su quella vaga ma inquietante sensazione di consuntivo che aleggia tra i solchi – riferita a sé? alla band? oppure…?)
E poi arriva “Ghosts”, per me idealmente collegata da un filo sottile a “We are alive” in “Wrecking ball”, nella cui recensione avevo scritto di uno “scenario da camposanto”. Qui i fantasmi, come là l’anima dei padri fondatori, sono cosa buona: se tutto l’album, alla fine, racconta tra le righe cosa vuol dire stare in una band, “Ghosts” non dimentica chi non c’è più. Un verso come “I turn up the volume and let the spirits be my guide/Meet you, brother and sister, on the other side” potrebbe tranquillamente fare da dedica a Clarence Clemons e Danny Federici. E, di fatto, il pezzo sdogana un tema che nel disco ricorre letteralmente dall’inizio alla fine: è ripreso nella canzone di apertura “One Minute You’re Here” (ispirata dalla scomparsa del Big Man) e in quella di chiusura “I’ll See You in My Dreams”, passando per la bellissima “Last Man Standing”.

Il brano-manifesto dell’album
Ecco, se ci fosse da scegliere un brano-manifesto dell’album, quello sarebbe proprio “Last Man Standing”. Un pezzo autobiografico che collega il Bruce Springsteen sconosciuto dei Castiles a quello di oggi, che mostra l’uomo che fa i conti con la sua carriera come misura del tempo che passa. Il giovane rocker affamato che calzava “cuban heels” e indossava gilet di pelle di serpente, oggi è l’ultimo rimasto in piedi: “Conti i nomi delle persone scomparse come in un conto alla rovescia”. Al tempo in cui la musica era solo musica, il leader dei Castiles – band nota solo per non essere diventata famosa come il suo chitarrista Bruce Springsteen – era George Theiss: Bruce sarebbe rimasto sempre in contatto con il vecchio amico, correndo al suo capezzale prima che morisse nel 2018. Un episodio-grilletto, che avrebbe scatenato ricordi e considerazioni in un uomo fin troppo avvezzo all’autoanalisi e che, ironicamente, potrebbe averlo condotto a riconsiderare l’idea della band non più solo come il suo migliore strumento, ma come il suo elemento, come l’essenza della sua musica – anche quella nuova.

Il suono della E Street Band
Il che ci conduce dalla parte lirica a quella strumentale di questo disco, che suona esattamente come ciò che un disco della E Street Band dovrebbe essere. Live. Asciutto e magniloquente al tempo stesso, amalgamato a puntino senza cercare la perfezione. Ascoltando l’album e confrontandolo con quelli pubblicati negli ultimi vent’anni – quelli prodotti da un artista che stava nuovamente mutando pelle e ritrasformandosi (con mooooolta calma) da solista in band leader e poi nuovamente in band member come all’inizio – pare perfino ovvio che la decisione di non preparare demo dei brani abbia lasciato che la formazione si esprimesse spontaneamente in studio senza doversi adattare a pezzi già strutturati e scritti con un taglio solista anziché corale. Ed è consequenziale che la meta-regia dietro all’album segni un ritorno alla tradizione, in cui spicca un’inclinazione ancora più marcata per l’era analogica e per il ritorno all’era di cui “Born in the U.S.A.” era stato l’ultimo episodio (quella degli album incisi live – era il 1984). Il co-produttore (insieme a Bruce) Ron Aiello, insieme al vecchio e grande Bob Clearmountain al mixer e a Bob Ludwig addetto al master, si sono “limitati” a ottimizzare senza influenzare. Al resto ci ha pensato la formazione al completo (che, per la cronaca, include Roy Bittan, Nils Lofgren, Patti Scialfa, Garry Tallent, Stevie Van Zandt, Max Weinberg, Charlie Giordano, Jake Clemons).

Le canzoni degli anni ’70, reincise
Quanto alla musica non nuova, Springsteen ha lavorato bene per renderla parte integrante dello spirito dell’album. La tripletta recuperata dall’archivio e che risale al biennio 1972-’73 circa – include “Song to Orphans”, “Janey Needs a Shooter” e “If I Was the Priest” – riporta a un Bruce quasi dylaniano (sia di fatto, sia per effetto delle P.R. dell’epoca) che stavolta mette in mano alla E Street Band canzoni dalle liriche un po’ vintage per una sana cura ricostituente. L’effetto è buono per i primi due brani, con un’armonica meravigliosa prima e un organo fantastico poi ad aprirli, mentre è addirittura eccellente per il terzo, una perla vera (tra l’altro oggetto di una cover degli anni ’70 di Allan Clarke degli Hollies). Il ritmo sincopato della chitarra in apertura e quella esilarante immagine di “Jesus is standing in the doorway in a buckskin jacket, boots and spurs so fine” la accompagnano direttamente sul podio.

La canzone imperdibile
La mia preferita? “House of a Thousand Guitars”, perché racchiude in pochi minuti l’intero immaginario rock dello Springsteen adolescente e la narrazione che ne è poi conseguita, rendendo la sua carriera una delle più luminose in assoluto e sia la sua figura che il suo ruolo epici. Non guasta un vago richiamo iniziale a “Jungleland” (anche nelle liriche) e ammetto che potrebbe essere un’influenza sul mio giudizio. Ma che pezzo. “We’ll go where the music never ends”. Il paradiso in terra. Grazie Roy Bittan, sei un maestro e inchioderesti chiunque con una intro del genere. E grazie Bruce, la tua voce tuona meno ma continua ad esprimere la storia e il sogno come nessuna altra.

Una virata a 180°, un ritorno a casa
“Letter to you” vira a 180° circa rispetto a “Western Stars”, che con il suo inatteso pop orchestrale solo un anno fa regalava una nuova dimensione alla musica del Boss, facendo sfoggio della sua padronanza dell’intero songbook – e molto oltre. E’ un band album con testi pregni alleggeriti dalla potenza energizzante del gruppo, al quale Bruce ha affidato il compito di rispolverare un suono tradizionale con materiale (quasi tutto) nuovo. E’ un disco con poca politica, dove The Donald credo faccia giusto capolino come l’impostore ciarlatano di “Rainmaker” (“We’ve been praying but no good came / we’ve been worried but now we’re scared / Rainmaker says white’s black and black’s white”) e nella già citata “House of a thousand guitars” (“criminal clown who has stolen the throne / he steals where he can never own”).

Se, come dicono, Dio è un DJ, diamo il bentornato alla più grande bar band del mondo. Cheers. (Giampiero Di Carlo – www.rockol.it)